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Verso una nuova normalità_silvia_arzuffi

VERSO UNA NUOVA NORMALITÀ

Fase due. Fase del dopo, del superamento di qualcosa, di un nuovo inizio. Abbiamo voglia di andare oltre.

Ma oltre a cosa?

Oltre al trauma, il
trauma collettivo della pandemia e della quarantena. Dobbiamo riconoscerlo. Ciò che abbiamo vissuto e che ancora stiamo vivendo ha tutte le caratteristiche del trauma. Il trauma mette in crisi i parametri spazio temporali della nostra mente, è  inatteso, ci coglie impreparati e senza difese specifiche per affrontarlo, ci fa sentire impotenti e cambia la nostra vita. La quarantena ha ristretto il nostro spazio di azione e messo tra parentesi, in un tempo sospeso, tanti aspetti della nostra quotidianità. 

Per definizione il trauma segna inesorabilmente un prima e un dopo e il dopo del trauma non può non tener conto di ciò che è stato. Non dobbiamo correre il pericolo di negare quello che è successo, aspettandoci semplicemente di ripartire da dove avevamo lasciato. È giusto dare spazio e ascoltare le nostre domande e i dubbi legati alla “nuova normalità” che stiamo per affrontare: come convivere con il virus? come tornare ad incontrare l’altro senza che si scatenino angosce persecutorie di contagio?

Una cosa è certa: se il trauma è stato collettivo, è insieme agli altri che dobbiamo superarlo. Non siamo soli ad affrontare l’incertezza del domani. L’esperienza traumatica ci accomuna e già abbiamo visto come siamo stati capaci di creare legami empatici anche a distanza, di far crollare barriere formali, di superare antiche lontananze e di preoccuparci davvero per il bene dell’altro. Stando distanti ci siamo presi cura di noi stessi e degli altri. Ora è arrivato il momento di andare oltre la fase della chiusura, della cura “passiva” e statica e di incontrare l’altro con un atteggiamento di cura reciproca che passa da comportamenti più attivi (l’uso della mascherina, il rispetto della distanza, ecc). 

La fase due è una nuova fase della nostra vita, della nostra vita con gli altri. Non è il ritorno a qualcosa di già sperimentato e conosciuto, è una fase che nasce da una periodo di quasi isolamento, un periodo trascorso in un deserto relazionale e psicologico, durante il quale sono inevitabilmente emersi pensieri importanti sulla vita, la malattia, la morte, i legami con i familiari. Sono domande accompagnate da un carico emotivo importante che nella vita “preCornavirus” non potevano avere il giusto spazio mentale. Lasciarle ricadere nell’oblio ora, nella fase due, equivarrebbe davvero a fare un torto a noi stessi. Affrontare la fase due consapevoli di vivere una fase nuova della nostra vita e della nostra società può contribuire ad andare oltre al trauma, senza negarlo, riconoscendolo in tutta la sua drammaticità, e avendo anche la capacità di guardare e accogliere tutta la sua potenza trasformativa.

LO SVILUPPO EMOTIVO DEL NEONATO: PERCHÉ RIVOLGERSI AD UNO PSICOLOGO?

Non è necessario, anzi è controproducente, aspettare che insorgano problemi nel bambino prima di chiedere un parere professionale. È sempre possibile e utile intervenire sui bambini, anche neonati, per accorgersi in tempo di quelle distorsioni relazionali che possono compromettere uno sviluppo armonico.

Il genitore deve tenere a mente che i primi anni di vita, e già i primissimi mesi, possono essere determinanti per lo sviluppo emotivo e sociale del proprio figlio.

Il neonato viene al mondo in modo traumatico, attraverso un cambiamento drastico di ambiente e di sensazioni.

Per i primi giorni il suo “nuovo mondo” è costituito da sensazioni forti come fame, sazietà, calore, braccia che lo sorreggono e lo cullano: è un mondo confortevole e sicuro o freddo e poco adattabile alle sue esigenze?

Contrariamente a quanto si creda, il neonato registra nella sua memoria corporea queste sensazioni ed è proprio a partire da lì che inizia a formare la sua primissima immagine sensoriale del mondo che lo circonda.

Il “nuovo mondo” è un mondo che dà cibo: il neonato sente qualcosa di buono e caldo che entra nel suo corpo: è una sensazione molto piacevole e desiderata. Ma cosa succede quando il latte manca o non è sufficiente? La sensazione di vuoto non viene colmata…

Lui non lo sa che la mamma è un po’ preoccupata: le amiche del corso pre parto le hanno detto che i loro figli mangiano per più tempo rispetto al suo, la suocera ritiene che dovrebbe dargli da mangiare più spesso ed infine sua madre ha insinuato che la colpa è sua, perché è troppo ansiosa. Non sa a chi dare ascolto, è stanca, confusa e pensierosa.

Ed ecco che le prime sensazioni del bambino rispetto al mondo si fanno più articolate: quella piacevole sensazione di riempimento della pancia è accompagnata dal fastidio di un abbraccio preoccupato.

Se le esperienze negative di contatto corporeo sono forti e prolungate nel tempo possono generare e lasciare traccia nella memoria corporea di vissuti traumatici e dolorosi.

Il bambino sa anche che il suo pianto provoca un effetto nel mondo che lo circonda. Quando si sente angosciato da una sensazione spiacevole di stanchezza o di fame, ricerca nel corpo e nella mente della madre un po’ di pace, di sicurezza e di serenità. Non sempre però il volto della madre, il suo tono e il suo modo di parlargli hanno il potere di consolarlo. Lui non sa che il suo pianto scatena nella mamma sensazioni forti e arcaiche, talvolta anche di rabbia e fastidio per il solo fatto di essere di fronte ad una richiesta impellente di soddisfazione di bisogni vitali, profondamente legati anche ai suoi vissuti di neonata e bambina.

Crescendo, il bambino scopre che il mondo è fatto anche di sguardi e di voci.

A lui piace comunicare, è nato con la predisposizione ad entrare in relazione e infatti inizia a cercare lo sguardo della mamma. Quanto è importante riconoscere i primissimi segnali comunicativi del neonato! Una mamma sensibile e disposta ad entrare in una relazione che le impone di regredire, di mettersi ad un livello infantile, e quindi di sentire anche riemergere i propri vissuti di bambina, più o meno piacevoli, è una mamma capace di rispondere con lo sguardo.

Ma cosa c’è davvero nello sguardo della mamma? Cosa rimanda al bambino?

Gli rimanda la sua stessa immagine, come lo vede, cosa pensa di lui, come lo vive e quali fantasie, conscie e inconsce, ha su di lui. Se lo sguardo materno è costantemente preoccupato, arrabbiato o distratto, il bambino non lo ricercherà più e si sottrarrà alla prima e più importante relazione sociale, quella con sua madre, che è la matrice di tutte le altre relazioni sociali.

Non sempre il bambino cerca la relazione con entusiasmo e con segnali comunicativi chiari, rendendo difficile la risposta da parte della mamma.

Infatti ogni bambino nasce con il proprio carattere e con una certa dose di energia vitale: l’incontro con la personalità e i vissuti dei genitori determinerà la crescita psicologica e relazionale del bambino.

In modo automatico avvengono quindi moltissimi scambi inconsci tra un neonato e la sua mamma. Le esperienze passate, le fantasie inconsce, il proprio vissuto di bambini e la relazione di coppia creano un lente che si frappone tra lo sguardo della mamma e quello del neonato. Se quella lente ha il potere di distorcere la realtà, si rischia di compromettere lo sviluppo del bambino che si vede costretto ad adeguarsi ad un’immagine di sé imposta dall’inconscio dell’altro piuttosto che scoprire il vero Sé attraverso gli occhi della madre.

Per questi motivi un intervento precoce può rendere più consapevoli i genitori riguardo alle dinamiche relazionali nascenti nella nuova famiglia e alle loro fantasie legate al nuovo nato, permettendo di prevenire distorsioni relazionali che possono compromettere la crescita sana del bambino.

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Il peso del silenzio

IL PESO DEL SILENZIO 

“È troppo piccolo per dirglielo”, “Non voglio che soffra quanto ho sofferto io”.

Sono frasi che qualsiasi mamma potrebbe dire, pensando di proteggere il proprio figlio. Ma siamo sicuri che sia la cosa giusta? Chiediamoci che effetto ha questo comportamento su un bambino.

Nella vita di una persona accadono talvolta eventi dolorosi e difficili da accettare che possono rimanere irrisolti, diventando così questioni emotivamente importanti. Se, nel corso degli anni, non si ha la possibilità di  analizzare tali eventi e di integrarli nella propria personale storia, essi possono condizionare il modo di rapportarsi alle situazioni e agli altri.

Non parlandone, ci si illude di non trasmettere alle persone care, in particolare ai bambini, eventi tristemente significativi del proprio passato. Tacendo, si crede di tenere sotto controllo e di arginare i possibili danni di un trauma, ma quello che si fatica a credere è che questo continua ad essere presente e attivo nel mondo delle emozioni. Il trauma parla nel silenzio.

Sono situazioni in cui il bambino percepisce che la propria madre è in ansia o è preoccupata, nonostante faccia di tutto per negarlo (anche a se stessa). E il bambino sente di non potersi fidare completamente; penserà: “se la mamma non è serena è una situazione da temere”. Ma il punto sta nella domanda che successivamente il bambino si pone spontaneamente: “Perché?”. E il bambino non ha risposta a questa domanda perché la mamma gli ha taciuto, in apparenza per amore, parti significative della storia personale e familiare. Ed ecco che il circolo vizioso è innescato: la stessa situazione che la mamma ha temuto da piccola ora è temuta anche dal figlio, ma al figlio è negata la possibilità di rintracciare l’origine di tutto ciò. Sarà confuso e disorientato rispetto alle sue emozioni.

Quello di cui spesso non ci si rende conto è che nascondere fatti dolorosi ai propri figli non è un modo per proteggerli, ma è un modo per esporli molto di più ad una futura sofferenza e insicurezza.

Un bambino è capace di accettare una realtà, pur dolorosa, se gli viene rivelata in modo rispettoso e accogliente verso i suoi sentimenti con un linguaggio consono alla sua età. L’importante è che non venga lasciato da solo ad affrontare mostri più grandi di lui. È proprio l’essere lasciato emotivamente da solo che lo disorienta e lo fa stare male.

Ovviamente la capacità dei genitori di comunicare ai figli in modo appropriato fatti dolorosi e ancora vivi nei propri ricordi ha un grande e non scontato presupposto alla base: l’adulto deve essere riuscito ad affrontare il proprio “trauma” in modo da non negarlo a se stesso. La comunicazione al figlio, che rimane comunque dolorosa e difficile,  è possibile solo se il genitore ha chiaro cosa e quali sentimenti sta comunicando.