psicoterapia

IL NOSTRO PASSATO INFLUENZA LE RELAZIONI ATTUALI?

Il vostro partner vi ha comunicato all’ultimo minuto che intende passare la serata con gli amici; la vostra migliore amica si è dimenticata del vostro compleanno; vostro figlio adolescente vi rimprovera di essere insensibili nei suoi confronti.

Come reagite? Vi capita di avere reazioni incontrollate e “non desiderate”?

Può succedere che alcune situazioni di vita quotidiana scatenino in noi emozioni e reazioni forti prima ancora che possiamo rendercene conto: è come se un pilota automatico passasse al comando, e così reagiamo quasi istintivamente. Ci facciamo prendere dallo sconforto per l’appuntamento mancato col partner, siamo disorientati per la dimenticanza dall’amica o ci arrabbiamo col figlio, magari pentendocene subito dopo.

Perché succede questo?

Per trovare la risposta dobbiamo volgere lo sguardo al passato, a quando eravamo bambini. Già, perché, proprio quando siamo bambini piccolissimi, si crea in noi una mappa con cui affrontiamo il mondo nel corso della vita. In base alla relazione che instauriamo con le figure che si prendono cura di noi (in primis i genitori) e all’immagine che abbiamo di loro viene delineata una sorta di griglia di lettura degli altri, del mondo e di noi stessi. Questa mappa è stata definita dallo psicanalista Bowlby∗ “Modello Operativo Interno” ed è un insieme di regole e schemi, di cui possiamo essere più o meno consapevoli, che si attiva tutte le volte che interagiamo con altri, soprattutto in situazioni stressanti, quando siamo in pericolo e cerchiamo aiuto o quando qualcun altro chiede il nostro aiuto.

Dalla primissima infanzia si creano dentro di noi due modelli:

  • il modello operativo del mondo, nel quale si definisce chi sono le figure di attaccamento, dove le si possa trovare, e di come ci si può aspettare che reagiscano. Ad esempio, potremmo aspettarci che le persone del nostro mondo (a partire dai nostri genitori per poi includere gli insegnanti, gli amici, il partner, il collega, ecc.) siano persone affidabili e disponibili, perché abbiamo fatto esperienza di ciò nell’infanzia, oppure al contrario che siano persone delle quali non possiamo fidarci e preferiamo cavarcela da soli;
  • il modello operativo di Sé, nel quale si definisce quanto si sia accettabili o inaccettabili agli occhi delle figure di attaccamento. Allo stesso modo se nell’infanzia sentiamo accolti i nostri bisogni e i nostri desideri, ci percepiremo come persone che possono ricevere le giuste attenzioni, al contrario, il vedere i propri bisogni messi sempre in secondo piano ci porterà a credere che ciò che sentiamo e pensiamo non ha valore.

I modelli operativi interni sono determinati dal tipo di “attaccamento”, cioè di legame, che si si instaura tra madre e neonato. Esso crea occhiali del tutto personali con i quali osserviamo e interpretiamo il mondo: in base alla nostra esperienza di bambini più o meno visti, confortati e protetti, vedremo gli altri come affidabili oppure come non affidabili e percepiremo noi stessi come amabili o non amabili.

Quattro tipi di attaccamento

Le ricerche, in particolare quelle della Ainsworth, che ha osservato le reazioni dei bambini alla separazione dalla madre, hanno messo in luce la presenza di quattro diversi tipi di attaccamento.

  • Attaccamento sicuro
    Si sviluppa quando il bambino percepisce l’adulto come una “base sicura” a cui potersi rivolgere ogni qualvolta si sente in pericolo. La “base sicura” è un trampolino da cui partire per esplorare il mondo. La persona con attaccamento sicuro ha fiducia negli altri, sa di poter chiedere aiuto.
  • Attaccamento evitante
    Si sviluppa quando il bambino fa esperienza di un adulto non attento o poco affettivo. Il bambino apprende che il rischio di essere deluso è altissimo e pertanto, crescendo, rinuncia a chiedere aiuto. La persona con attaccamento evitante minimizza il suo bisogno di attaccamento, anche se nel profondo può esserci traccia di un desiderio di vicinanza e di aiuto.
  • Attaccamento ambivalente
    Il bambino è disorientato perché non sa cosa aspettarsi dall’adulto di riferimento. Non riesce a tranquillizzarsi e il genitore non costituisce una “base sicura”, ma anzi è fonte di confusione e ansia perché lo sommerge con i propri vissuti emotivi. Da adulto sente un forte bisogno di attaccamento che, se non soddisfatto, fa riemergere la tipologia ambivalente che non gli permette di tranquillizzarsi e di essere sicuro del legame con l’altra persona. In genere vive i rapporti come se fosse questione di vita o di morte.
  • Attaccamento disorganizzato
    Si sviluppa quando la figura di riferimento è fonte di terrore e angoscia. Le persone con attaccamento disorganizzato da piccole hanno subito maltrattamenti, abusi o gravi trascuratezze.In queste circostanze il bambino sperimenta una forte confusione proprio perché la figura di riferimento, che dovrebbe rassicurare, è essa stessa fonte di paura. È un tipo di attaccamento molto insicuro e problematico.

Ormai le neuroscienze hanno ampiamente dimostrato che le esperienze che viviamo nel presente si ricollegano e attivano episodi che abbiamo vissuto nel passato.

Spesso non ne siamo consapevoli e in particolare non siamo consapevoli di quei piccoli o grandi episodi traumatici e stressanti che hanno plasmato la nostra mappa: tendiamo a dimenticare episodi spiacevoli, in cui, per esempio, da bambini siamo stati rimproverati quando ci aspettavamo conforto, ci hanno fatto sentire in imbarazzo, non ci siamo sentiti considerati e accolti…. Già, proprio perché questi momenti hanno generato in noi ansia, gli ormoni dello stress hanno bloccato l’elaborazione delle emozioni legate all’episodio e hanno impedito al ricordo di archiviarsi nella nostra memoria autobiografica.

E quindi dobbiamo chiederci: il senso di abbandono derivato dalla decisione del partner di trascorrere la serata con gli amici o la cocente delusione per la dimenticanza dell’amica o ancora la rabbia provata per le accuse del figlio, riguarda il qui e ora o ha toccato un nervo scoperto che ha a che fare con il passato?

Più si è consapevoli del proprio stile di attaccamento e più si riconoscono i collegamenti tra il presente e il passato e più si evita di dare in mano il controllo della propria vita ad un pilota automatico, che segue una mappa antica e non più funzionale, una mappa che non contempla eventuali nuovi percorsi del presente.

Lo stile di attaccamento non deve rimanere per forza immutato: può cambiare, soprattutto grazie alle relazioni emotivamente significative che stringiamo nel corso della vita: le relazioni di coppia o le relazioni terapeutiche possono infatti contribuire a modellare e modificare il nostro stile di attaccamento.

∗Bowlby, J. (1973), Attaccamento e perdita.

ANSIA: UN NEMICO DA COMBATTERE O UN SINTOMO DA INDAGARE?

Sentiamo parlare molto spesso di ansia, e probabilmente l’abbiamo sperimentata in qualche occasione. Ma esattamente cosa è? E perché la proviamo?

Ormai è dimostrato ampiamente che un livello moderato di ansia è adattivo per l’individuo che si appresta ad affrontare un compito di una certa difficoltà. L’ansia quindi ci può aiutare durante l’apprendimento, la produttività o la risoluzione di problemi complessi. Oppure fa in modo di attivare l’organismo per fronteggiare un potenziale pericolo, per esempio per essere pronti a difenderci di fronte ad un’aggressione.

Uno stato ansioso, quindi, ci avverte che la situazione che stiamo per affrontare merita tutte le nostre energie e abilità.

Tuttavia a volte l’ansia sembra remare contro di noi: diventa la protagonista della nostra giornata o si impone nei momenti meno opportuni. Ecco allora che il pensiero si offusca e davanti a noi vediamo solo tre alternative: lottare, fuggire o rimanere bloccati. Quando i livelli di ansia sono molto elevati può capitare di spaventarsi o di provare vergogna a causa delle proprie reazioni. Può quindi innescarsi un circolo vizioso per il quale si fa di tutto per evitare di ritrovarsi nella stessa situazione penosa, arrivando anche a limitare la propria vita sociale per timore di rivivere, magari di fronte ad altri, quelle situazioni di panico.

Le manifestazioni dell’ansia possono essere molto diverse tra di loro: la più evidente e al tempo stesso più violenta è sicuramente l’attacco di panico, durante il quale il corpo reagisce come se fosse in pericolo di morte: tachicardia, fatica a respirare, paralisi, pensieri rapidi, vertigini, svenimento, senso improvviso di terrore e morte imminente fino ad arrivare a sentimenti di depersonalizzazione.

L’attacco di panico può essere scatenato da qualsiasi stimolo: una zona affollata, un concerto, un temporale, stare in coda in macchina, la vista di un vecchio conoscente, una promozione lavorativa, ecc.

Talvolta l’angoscia può prendere la forma di fobie specifiche: si ha paura di determinati animali, di stare in spazi chiusi, degli aghi o di contrarre infezioni.

L’ansia può manifestarsi anche in modo meno violento, rimanendo però presente nel corso di tutta la giornata: si fa fatica a concentrarsi, a portare a termine un’attività sul lavoro, cala la motivazione e la capacità di organizzarsi, prendere sonno diventa difficoltoso, o si prova un sottile senso di angoscia.

Infine, può scaricarsi nel corpo ed ecco che insorgono sintomi somatici come disturbi gastrointestinali, mal di testa, contratture cervicali, stanchezza, ecc.

Come fronteggiare l’ansia?

La prima cosa che viene spontaneo fare per contrastare le spiacevoli sensazioni date dall’ansia è trovare accorgimenti pratici: si evitano luoghi affollati, si controllano le vie di fuga in un ambiente chiuso, si controllano continuamente le previsioni del tempo, e così via. Magari si riesce a scampare a qualche situazione faticosa, ma si sa bene che l’ansia non se ne va del tutto, si è sempre all’erta e si ha sempre il timore di ricadere nell’angoscia profonda. Ma allora perché non fermarsi e ammettere che forse la nostra mente, e il nostro corpo, ci stanno comunicando qualcosa?

L’ansia è un segnale, è un campanello di allarme che ci avvisa di un pericolo.

Ma dove si trova questo pericolo? Non certo nel luogo affollato, nella coda in autostrada, o nel temporale, e razionalmente se ne rende conto anche chi prova forti sensazioni di panico in situazioni simili. Forse allora dobbiamo spostare l’attenzione dall’esterno e rivolgere lo sguardo verso il nostro mondo interno e provare ad indagare questi segnali di angoscia. Cosa ci stanno comunicando? Cosa è davvero che genera questa sensazione di ansia?

All’interno di un percorso di psicoterapia si cerca di rispondere a queste domande, dando voce ai sintomi e partendo dalla consapevolezza che l’ansia ha un significato inconscio specifico e unico per ogni individuo.

Infatti sotto alle paure specifiche o ad un attacco di panico può nascondersi un desiderio represso o un impulso non accettabile per la coscienza, che crea un conflitto interiore.  L’origine di tale conflitto può risalire alla propria infanzia e non essere immediatamente accessibile alla memoria, ma è possibile recuperarlo e esplorarne la dinamica all’interno di una relazione psicoterapeutica.

Partendo da una paura specifica, o da un’angoscia che appare immotivata, si può analizzare la modalità in cui si manifesta, le fantasie sottostanti, i ricordi legati ai primi episodi d’ansia e le modalità difensive usate dalla persona, per arrivare a comprendere il conflitto inconscio che genera la sensazione d’angoscia. Una volta riconosciuto e affrontato nella relazione con il terapeuta, il conflitto non sarà più ritenuto una minaccia: il segnale d’allarme non sarà più inviato, non si attiveranno più gli stessi meccanismi di difesa che ormai erano divenuti poco efficaci e quindi l’angoscia non avrà più la sua ragione di esistere.

Il peso del silenzio

IL PESO DEL SILENZIO 

“È troppo piccolo per dirglielo”, “Non voglio che soffra quanto ho sofferto io”.

Sono frasi che qualsiasi mamma potrebbe dire, pensando di proteggere il proprio figlio. Ma siamo sicuri che sia la cosa giusta? Chiediamoci che effetto ha questo comportamento su un bambino.

Nella vita di una persona accadono talvolta eventi dolorosi e difficili da accettare che possono rimanere irrisolti, diventando così questioni emotivamente importanti. Se, nel corso degli anni, non si ha la possibilità di  analizzare tali eventi e di integrarli nella propria personale storia, essi possono condizionare il modo di rapportarsi alle situazioni e agli altri.

Non parlandone, ci si illude di non trasmettere alle persone care, in particolare ai bambini, eventi tristemente significativi del proprio passato. Tacendo, si crede di tenere sotto controllo e di arginare i possibili danni di un trauma, ma quello che si fatica a credere è che questo continua ad essere presente e attivo nel mondo delle emozioni. Il trauma parla nel silenzio.

Sono situazioni in cui il bambino percepisce che la propria madre è in ansia o è preoccupata, nonostante faccia di tutto per negarlo (anche a se stessa). E il bambino sente di non potersi fidare completamente; penserà: “se la mamma non è serena è una situazione da temere”. Ma il punto sta nella domanda che successivamente il bambino si pone spontaneamente: “Perché?”. E il bambino non ha risposta a questa domanda perché la mamma gli ha taciuto, in apparenza per amore, parti significative della storia personale e familiare. Ed ecco che il circolo vizioso è innescato: la stessa situazione che la mamma ha temuto da piccola ora è temuta anche dal figlio, ma al figlio è negata la possibilità di rintracciare l’origine di tutto ciò. Sarà confuso e disorientato rispetto alle sue emozioni.

Quello di cui spesso non ci si rende conto è che nascondere fatti dolorosi ai propri figli non è un modo per proteggerli, ma è un modo per esporli molto di più ad una futura sofferenza e insicurezza.

Un bambino è capace di accettare una realtà, pur dolorosa, se gli viene rivelata in modo rispettoso e accogliente verso i suoi sentimenti con un linguaggio consono alla sua età. L’importante è che non venga lasciato da solo ad affrontare mostri più grandi di lui. È proprio l’essere lasciato emotivamente da solo che lo disorienta e lo fa stare male.

Ovviamente la capacità dei genitori di comunicare ai figli in modo appropriato fatti dolorosi e ancora vivi nei propri ricordi ha un grande e non scontato presupposto alla base: l’adulto deve essere riuscito ad affrontare il proprio “trauma” in modo da non negarlo a se stesso. La comunicazione al figlio, che rimane comunque dolorosa e difficile,  è possibile solo se il genitore ha chiaro cosa e quali sentimenti sta comunicando.