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COME AVERE A CHE FARE CON UN FIGLIO PREADOLESCENTE

Una delle sfide più importanti della preadolescenza (sia per il ragazzo, sia per il genitore) è quella di riuscire a gestire l’ambivalenza che il ragazzo prova tra il desiderio di autonomia e il bisogno di dipendenza. Il ragazzino inizia a sentire la voglia di libertà, di sentirsi capace di affrontare il mondo da solo, e ciò significa anche mettere in discussione l’antico sistema di sicurezza, basato sull’affidarsi e sul dipendere dai genitori. Il preadolescente ha quindi paura di affrontare tutte le novità, sia esterne, sia interne a sé, completamente da solo. Ha bisogno di sentire che il genitore è presente, che lo guida nei primi passi verso l’autonomia, ma che al tempo stesso non gli impedisce l’esplorazione del mondo e di sé.

Il genitore è quindi chiamato ad essere un porto sicuro, al quale il ragazzo può attraccare nei momenti di stanchezza, dubbio, o paura, e dal quale, al tempo stesso, può spingersi, come da un trampolino di lancio, per sperimentare le proprie capacità e scoprire nuovi mondi.

Ovviamente non si giunge alla preadolescenza senza un passato. Fino a questa età il genitore ha contribuito a creare, restando nella metafora, la barca del proprio figlio: i valori trasmessi e la capacità di dialogo con il figlio sono basi che un genitore ha già avuto modo di alimentare nell’infanzia e costituiscono l’armatura della barca, ovvero la struttura della personalità del figlio.

Ovviamente è il porto, ovvero il genitore, a non doversi spaventare dalla burrasca in arrivo. Una volta usciti dall’infanzia, il mare si fa inevitabilmente più mosso: le onde provocate dalla crescita fisica, portano il ragazzo a provare tutto a un tratto una forte euforia e subito dopo sentimenti depressivi e di sconforto. Sarà attratto da lidi che promettono gratificazioni immediate o che prevedono percorsi rischiosi per essere raggiunti e conquistati.

Ma allora come può un genitore porsi come un porto sicuro per un preadolescente?Ecco alcune linee guida che possono essere spunti di riflessione per un genitore di un figlio preadolescente:

  1. Creare spazi di condivisione neutrali

Vi ricordate il suo orsacchiotto dal quale non si separava mai? Bene, quell’orsacchiotto è servito a vostro figlio per separarsi in modo graduale da voi: lo stringeva quando sentiva la vostra mancanza e lo picchiava quando era arrabbiato con voi. Su quell’orsacchiotto era possibile sperimentare e sfogare tutte le emozioni possibili, non c’era il rischio di compromettere il rapporto reale con la mamma. Magari vi ha anche coinvolto in qualche gioco con l’orsacchiotto preferito: eravate insieme, ma con un oggetto tra di voi, un oggetto carico di significati, attraverso il quale era possibile parlare di se stessi, di ciò che si provava per l’altro, senza sentirsi troppo direttamente coinvolti.

Ora che è più grandicello sta, ancora una volta, affrontando una separazione importante da voi: una separazione non più fisica, ma soprattutto mentale, di pensiero. Servono spazi e momenti in cui condividete punti di vista, affetti ed emozioni, spesso contrastanti. Insomma serve un nuovo orsacchiotto…ma che forma può avere un orsacchiotto per un preadolescente? Le aree “neutrali” per un ragazzo assumono le forme della musica, dei film e dei libri (quando ama leggere!).

Attraverso la sua musica lui vi parla di ciò che prova, dei suoi dubbi, delle sue paure e delle sue speranze. Perciò la sua musica non è “terribile” o “fastidiosa”, è “interessante”. Ascoltatela sul serio e chiedetegli cosa gli piace di quella canzone e di quel cantante. E poi fategli ascoltare una vostra canzone, magari una di quelle che ascoltavate quando avevate la sua età e commentatela insieme.

E cosa dire dei film o dei libri? Ci sono film e libri interessanti che si possono proporre ai ragazzini per stimolare delle riflessioni su temi importanti della vita. Soli davanti alla TV subiscono passivamente le immagini e il messaggio del film, ma con un genitore guardare un film può essere l’occasione per parlare di relazioni sentimentali, di bullismo, di violenza, di ingiustizie, di rapporto con i pari e con gli adulti. Parlando del film si evitano le domande dirette, che solitamente i ragazzi non tollerano, e si può fornire loro argomenti interessanti per allenarsi al pensiero critico e ad esprimere il loro punto di vista. Punto di vista che può essere diverso dal vostro, senza per questo suscitare conflitti o emozioni forti…del resto, si sta parlando del film! (Potreste proporre film come Inside out per parlare dei cambiamenti emotivi, Wonder per affrontare il tema dell’integrazione, del bullismo e delle dinamiche familiari, Super 8 per tematiche riguardanti il gruppo e i primi innamoramenti, e tanti altri!)

  1. Insegnare l’autonomia

Il ragazzo ha bisogno di sentirsi autonomo. Vedersi capace di fare piccole cose da solo contribuisce non solo al progressivo distacco da voi, ma alimenta la sua autostima. È perciò importante assegnargli dei piccoli compiti, dei quali lui diventi responsabile. Non con spirito punitivo, ma proprio perché sta crescendo, vi potete fidare di lui per la pulizia della propria stanza o per la gestione della spazzatura o per accompagnare il cane. Ovviamente non si può pretendere che sappia da subito svolgere questi compiti alla perfezione: va insegnato come si fa e quali sono le strategie giuste per evitare di dimenticarsi del compito.

  1. Dare punti fermi

Tornando alla metafora del porto sicuro, se un genitore cede a tutte le richieste del figlio o gli permette di esplorare luoghi non sicuri è un porto che fa acqua da tutte le parti. E il ragazzo se ne accorge: lui ha bisogno di sapere che il genitore è forte e non cede alle sua bufera di emozioni e di pretese. In modo tranquillo, ma fermo, siate chiari nei permessi e nelle regole. Fate notare, senza essere troppo pedanti se la cosa non è grave, quando trasgrediscono. Parlate apertamente dei rischi che potrebbero incontrare in certe situazioni, spiegate loro perché non gli concedete una cosa. Per esempio: vostra figlia vuole rientrare in casa da sola dopo aver passato il pomeriggio dall’amica. Si sente grande e autonoma, ma potrebbe non essere in grado di prevedere tutti i rischi ai quali va incontro. Quindi se sapete che la strada che dovrebbe percorrere di sera diventa, purtroppo, una strada poco sicura, non rispondetele con espressioni del tipo “tu in giro da sola non ci vai!”, come se fosse incapace di rientrare a casa da sola e facendola sentire in colpa per la sua richiesta di autonomia. Spiegatele, invece che è inutile correre rischi, in quanto la strada è poco sicura: “per questa volta ti vengo a prendere io, perchè non mi fido delle persone e delle situazioni che potresti incontrare lungo la strada” (non “perché non mi fido di te”!).

  1. Mai sminuire, sempre ascoltare

La litigata con l’amica del cuore o il rigore sbagliato sul campo di calcio, non sono “piccolezze” per questa età. Diventano problemi gravi, magari solo per un pomeriggio, ma creano sofferenza. Se avete instaurato un buon dialogo con vostro figlio e avete la preziosa occasione di venire a conoscenza di ciò che gli accade, non sminuite la questione, ma cogliete l’opportunità per aprire un dialogo: “cosa ti ha fatto arrabbiare del comportamento dell’amica?”, “cosa ti dà più fastidio del fatto di aver sbagliato il rigore?”. Vostro figlio deve capire che ciò che prova e ciò che pensa è importante per voi e che siete in grado di sostenere un dialogo pacato anche quando le emozioni in gioco sembrano esplosive.

  1. Porsi come “cervello cognitivo” di supporto

Il cervello cognitivo di un preadolescente sta ancora maturando, mentre è già ben sviluppato quello emotivo. Le decisioni o la valutazione di una situazione avviene pertanto sull’onda emotiva. Il passaggio al pensiero critico deve essere quindi stimolato dall’adulto: “quali potrebbero essere le conseguenze?”, “come avresti reagito tu se fossi stato al posto di …?”, “perché secondo te la prof ha reagito così?”, sono tutte domande che stimolano le connessioni tra il cervello emotivo e quello cognitivo che in un preadolescente è strutturalmente più lento.

  1. Conoscere il suo mondo

Oggi non si tratta più solamente di conoscere gli amici, le famiglie, i compagni di calcio, ma si tratta di stare al passo con i tempi e di aggiornarsi in continuazione.

Cosa implica permettergli l’uso del cellulare? Come educarlo all’uso del cellulare?Come funziona Instagram? Quali contenuti può vedere tramite il suo profilo? Chi può chiedergli l’amicizia su Facebook? Cosa comporta entrare in un clan di un videogioco? Chi è lo youtuber che segue ogni pomeriggio?

L’interesse per il mondo del ragazzo permette al genitore di rimanere in contatto con le esperienze del figlio (vostro figlio sa che se siete disposti a parlare di videogiochi sarete disposti a parlare di qualunque cosa, anche di tematiche serie), e al tempo stesso potrete informarlo su eventuali rischi e quindi proteggerlo.

IL NOSTRO PASSATO INFLUENZA LE RELAZIONI ATTUALI?

Il vostro partner vi ha comunicato all’ultimo minuto che intende passare la serata con gli amici; la vostra migliore amica si è dimenticata del vostro compleanno; vostro figlio adolescente vi rimprovera di essere insensibili nei suoi confronti.

Come reagite? Vi capita di avere reazioni incontrollate e “non desiderate”?

Può succedere che alcune situazioni di vita quotidiana scatenino in noi emozioni e reazioni forti prima ancora che possiamo rendercene conto: è come se un pilota automatico passasse al comando, e così reagiamo quasi istintivamente. Ci facciamo prendere dallo sconforto per l’appuntamento mancato col partner, siamo disorientati per la dimenticanza dall’amica o ci arrabbiamo col figlio, magari pentendocene subito dopo.

Perché succede questo?

Per trovare la risposta dobbiamo volgere lo sguardo al passato, a quando eravamo bambini. Già, perché, proprio quando siamo bambini piccolissimi, si crea in noi una mappa con cui affrontiamo il mondo nel corso della vita. In base alla relazione che instauriamo con le figure che si prendono cura di noi (in primis i genitori) e all’immagine che abbiamo di loro viene delineata una sorta di griglia di lettura degli altri, del mondo e di noi stessi. Questa mappa è stata definita dallo psicanalista Bowlby∗ “Modello Operativo Interno” ed è un insieme di regole e schemi, di cui possiamo essere più o meno consapevoli, che si attiva tutte le volte che interagiamo con altri, soprattutto in situazioni stressanti, quando siamo in pericolo e cerchiamo aiuto o quando qualcun altro chiede il nostro aiuto.

Dalla primissima infanzia si creano dentro di noi due modelli:

  • il modello operativo del mondo, nel quale si definisce chi sono le figure di attaccamento, dove le si possa trovare, e di come ci si può aspettare che reagiscano. Ad esempio, potremmo aspettarci che le persone del nostro mondo (a partire dai nostri genitori per poi includere gli insegnanti, gli amici, il partner, il collega, ecc.) siano persone affidabili e disponibili, perché abbiamo fatto esperienza di ciò nell’infanzia, oppure al contrario che siano persone delle quali non possiamo fidarci e preferiamo cavarcela da soli;
  • il modello operativo di Sé, nel quale si definisce quanto si sia accettabili o inaccettabili agli occhi delle figure di attaccamento. Allo stesso modo se nell’infanzia sentiamo accolti i nostri bisogni e i nostri desideri, ci percepiremo come persone che possono ricevere le giuste attenzioni, al contrario, il vedere i propri bisogni messi sempre in secondo piano ci porterà a credere che ciò che sentiamo e pensiamo non ha valore.

I modelli operativi interni sono determinati dal tipo di “attaccamento”, cioè di legame, che si si instaura tra madre e neonato. Esso crea occhiali del tutto personali con i quali osserviamo e interpretiamo il mondo: in base alla nostra esperienza di bambini più o meno visti, confortati e protetti, vedremo gli altri come affidabili oppure come non affidabili e percepiremo noi stessi come amabili o non amabili.

Quattro tipi di attaccamento

Le ricerche, in particolare quelle della Ainsworth, che ha osservato le reazioni dei bambini alla separazione dalla madre, hanno messo in luce la presenza di quattro diversi tipi di attaccamento.

  • Attaccamento sicuro
    Si sviluppa quando il bambino percepisce l’adulto come una “base sicura” a cui potersi rivolgere ogni qualvolta si sente in pericolo. La “base sicura” è un trampolino da cui partire per esplorare il mondo. La persona con attaccamento sicuro ha fiducia negli altri, sa di poter chiedere aiuto.
  • Attaccamento evitante
    Si sviluppa quando il bambino fa esperienza di un adulto non attento o poco affettivo. Il bambino apprende che il rischio di essere deluso è altissimo e pertanto, crescendo, rinuncia a chiedere aiuto. La persona con attaccamento evitante minimizza il suo bisogno di attaccamento, anche se nel profondo può esserci traccia di un desiderio di vicinanza e di aiuto.
  • Attaccamento ambivalente
    Il bambino è disorientato perché non sa cosa aspettarsi dall’adulto di riferimento. Non riesce a tranquillizzarsi e il genitore non costituisce una “base sicura”, ma anzi è fonte di confusione e ansia perché lo sommerge con i propri vissuti emotivi. Da adulto sente un forte bisogno di attaccamento che, se non soddisfatto, fa riemergere la tipologia ambivalente che non gli permette di tranquillizzarsi e di essere sicuro del legame con l’altra persona. In genere vive i rapporti come se fosse questione di vita o di morte.
  • Attaccamento disorganizzato
    Si sviluppa quando la figura di riferimento è fonte di terrore e angoscia. Le persone con attaccamento disorganizzato da piccole hanno subito maltrattamenti, abusi o gravi trascuratezze.In queste circostanze il bambino sperimenta una forte confusione proprio perché la figura di riferimento, che dovrebbe rassicurare, è essa stessa fonte di paura. È un tipo di attaccamento molto insicuro e problematico.

Ormai le neuroscienze hanno ampiamente dimostrato che le esperienze che viviamo nel presente si ricollegano e attivano episodi che abbiamo vissuto nel passato.

Spesso non ne siamo consapevoli e in particolare non siamo consapevoli di quei piccoli o grandi episodi traumatici e stressanti che hanno plasmato la nostra mappa: tendiamo a dimenticare episodi spiacevoli, in cui, per esempio, da bambini siamo stati rimproverati quando ci aspettavamo conforto, ci hanno fatto sentire in imbarazzo, non ci siamo sentiti considerati e accolti…. Già, proprio perché questi momenti hanno generato in noi ansia, gli ormoni dello stress hanno bloccato l’elaborazione delle emozioni legate all’episodio e hanno impedito al ricordo di archiviarsi nella nostra memoria autobiografica.

E quindi dobbiamo chiederci: il senso di abbandono derivato dalla decisione del partner di trascorrere la serata con gli amici o la cocente delusione per la dimenticanza dell’amica o ancora la rabbia provata per le accuse del figlio, riguarda il qui e ora o ha toccato un nervo scoperto che ha a che fare con il passato?

Più si è consapevoli del proprio stile di attaccamento e più si riconoscono i collegamenti tra il presente e il passato e più si evita di dare in mano il controllo della propria vita ad un pilota automatico, che segue una mappa antica e non più funzionale, una mappa che non contempla eventuali nuovi percorsi del presente.

Lo stile di attaccamento non deve rimanere per forza immutato: può cambiare, soprattutto grazie alle relazioni emotivamente significative che stringiamo nel corso della vita: le relazioni di coppia o le relazioni terapeutiche possono infatti contribuire a modellare e modificare il nostro stile di attaccamento.

∗Bowlby, J. (1973), Attaccamento e perdita.

LO SVILUPPO EMOTIVO DEL NEONATO: PERCHÉ RIVOLGERSI AD UNO PSICOLOGO?

Non è necessario, anzi è controproducente, aspettare che insorgano problemi nel bambino prima di chiedere un parere professionale. È sempre possibile e utile intervenire sui bambini, anche neonati, per accorgersi in tempo di quelle distorsioni relazionali che possono compromettere uno sviluppo armonico.

Il genitore deve tenere a mente che i primi anni di vita, e già i primissimi mesi, possono essere determinanti per lo sviluppo emotivo e sociale del proprio figlio.

Il neonato viene al mondo in modo traumatico, attraverso un cambiamento drastico di ambiente e di sensazioni.

Per i primi giorni il suo “nuovo mondo” è costituito da sensazioni forti come fame, sazietà, calore, braccia che lo sorreggono e lo cullano: è un mondo confortevole e sicuro o freddo e poco adattabile alle sue esigenze?

Contrariamente a quanto si creda, il neonato registra nella sua memoria corporea queste sensazioni ed è proprio a partire da lì che inizia a formare la sua primissima immagine sensoriale del mondo che lo circonda.

Il “nuovo mondo” è un mondo che dà cibo: il neonato sente qualcosa di buono e caldo che entra nel suo corpo: è una sensazione molto piacevole e desiderata. Ma cosa succede quando il latte manca o non è sufficiente? La sensazione di vuoto non viene colmata…

Lui non lo sa che la mamma è un po’ preoccupata: le amiche del corso pre parto le hanno detto che i loro figli mangiano per più tempo rispetto al suo, la suocera ritiene che dovrebbe dargli da mangiare più spesso ed infine sua madre ha insinuato che la colpa è sua, perché è troppo ansiosa. Non sa a chi dare ascolto, è stanca, confusa e pensierosa.

Ed ecco che le prime sensazioni del bambino rispetto al mondo si fanno più articolate: quella piacevole sensazione di riempimento della pancia è accompagnata dal fastidio di un abbraccio preoccupato.

Se le esperienze negative di contatto corporeo sono forti e prolungate nel tempo possono generare e lasciare traccia nella memoria corporea di vissuti traumatici e dolorosi.

Il bambino sa anche che il suo pianto provoca un effetto nel mondo che lo circonda. Quando si sente angosciato da una sensazione spiacevole di stanchezza o di fame, ricerca nel corpo e nella mente della madre un po’ di pace, di sicurezza e di serenità. Non sempre però il volto della madre, il suo tono e il suo modo di parlargli hanno il potere di consolarlo. Lui non sa che il suo pianto scatena nella mamma sensazioni forti e arcaiche, talvolta anche di rabbia e fastidio per il solo fatto di essere di fronte ad una richiesta impellente di soddisfazione di bisogni vitali, profondamente legati anche ai suoi vissuti di neonata e bambina.

Crescendo, il bambino scopre che il mondo è fatto anche di sguardi e di voci.

A lui piace comunicare, è nato con la predisposizione ad entrare in relazione e infatti inizia a cercare lo sguardo della mamma. Quanto è importante riconoscere i primissimi segnali comunicativi del neonato! Una mamma sensibile e disposta ad entrare in una relazione che le impone di regredire, di mettersi ad un livello infantile, e quindi di sentire anche riemergere i propri vissuti di bambina, più o meno piacevoli, è una mamma capace di rispondere con lo sguardo.

Ma cosa c’è davvero nello sguardo della mamma? Cosa rimanda al bambino?

Gli rimanda la sua stessa immagine, come lo vede, cosa pensa di lui, come lo vive e quali fantasie, conscie e inconsce, ha su di lui. Se lo sguardo materno è costantemente preoccupato, arrabbiato o distratto, il bambino non lo ricercherà più e si sottrarrà alla prima e più importante relazione sociale, quella con sua madre, che è la matrice di tutte le altre relazioni sociali.

Non sempre il bambino cerca la relazione con entusiasmo e con segnali comunicativi chiari, rendendo difficile la risposta da parte della mamma.

Infatti ogni bambino nasce con il proprio carattere e con una certa dose di energia vitale: l’incontro con la personalità e i vissuti dei genitori determinerà la crescita psicologica e relazionale del bambino.

In modo automatico avvengono quindi moltissimi scambi inconsci tra un neonato e la sua mamma. Le esperienze passate, le fantasie inconsce, il proprio vissuto di bambini e la relazione di coppia creano un lente che si frappone tra lo sguardo della mamma e quello del neonato. Se quella lente ha il potere di distorcere la realtà, si rischia di compromettere lo sviluppo del bambino che si vede costretto ad adeguarsi ad un’immagine di sé imposta dall’inconscio dell’altro piuttosto che scoprire il vero Sé attraverso gli occhi della madre.

Per questi motivi un intervento precoce può rendere più consapevoli i genitori riguardo alle dinamiche relazionali nascenti nella nuova famiglia e alle loro fantasie legate al nuovo nato, permettendo di prevenire distorsioni relazionali che possono compromettere la crescita sana del bambino.

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