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FRAGILI MA RESISTENTI. Come il virus ci mette alla prova.

Quarantena: un atto d’amore “capovolto”

L’isolamento forzato ci fa rendere conto di quanta fame abbiamo di relazioni sociali, di abbracci e di sguardi. Pensiamo, del resto, ad un bambino piccolo, che ha necessità di ricevere lo sguardo della madre, che lo riconosce e definisce il suo valore. A quanto pare, anche da adulti non smettiamo di avere bisogno di sguardi, di abbracci e di qualcuno che si prende cura di noi.
Stranamente in questo periodo la cura verso noi stessi e verso gli altri passa da un atto d’amore “capovolto”: la distanza sociale, il non incontrare amici e parenti.
L’essere umano è capace di amore, ma al tempo stesso è un essere sociale, necessita di relazioni. Forse anche proprio per questo motivo l’atto di amore che ci è richiesto di compiere in queste settimane di quarantena è così difficile da tollerare.

L’importanza della resilienza. Oggi più che mai.

La nostra mente è stata chiamata ad adattarsi a cambiamenti forti in poco tempo: ci siamo accorti che le abitudini che prima vivevamo magari con insofferenza in fondo ci davano sicurezza, erano dei punti fermi, e capita di sentirsi smarriti.

La domanda “come stai?” non è più retorica, ci preoccupiamo davvero della salute dell’altro. Sperimentiamo situazioni che mai avremmo immaginato, come il lavoro e la didattica a distanza, l’impossibilità di riunirci con i nostri cari. Ma con le nostre risorse reagiamo: abbiamo visto come in tantissimi hanno reagito al vuoto relazionale imposto con dei meccanismi di vicinanza empatica alternativa, grazie al web e ai social.

L’invito è quindi quello di cogliere il momento di quarantena, salute permettendo, come momento per le opportunità, per sperimentare modi di relazionarsi, di lavorare, di vivere, diversi dal solito e fare entrare nelle nostre lunghe giornate un elemento di positività, di curiosità e di scoperta. Questo atteggiamento propositivo ci permette di tenere il controllo su alcuni aspetti della nostra vita con una inclinazione alla crescita, al miglioramento, alla speranza e, nello stesso tempo può aiutarci a sentirci meno in balìa delle preoccupazioni e delle paure legate al contagio.

Ascoltare i nostri pensieri.

Salute permettendo, nelle lunghe giornate in cui il fare e il rincorrere gli impegni passano in secondo piano, è possibile sentire i nostri pensieri, pensieri che interrogano noi stessi, le nostre scelte di vita, il significato che diamo alle relazioni con gli altri.

Vi auguro che possiate cogliere questa situazione difficoltà come una possibilità di conoscere sempre più a fondo voi stessi.

COME COSTRUIAMO LA NOSTRA IDENTITÀ PERSONALE?

Quando capiamo chi siamo? In che modo troviamo la nostra “dimensione”?

La costruzione della propria identità è un processo che dura tutta la vita, ma durante la preadolescenza e l’adolescenza attraversa la tappa più importante, quella cruciale per lo sviluppo della personalità adulta.

I fattori che entrano in gioco sono tanti: inclinazioni caratteriali, modelli da seguire, genitori, insegnanti, successi e frustrazioni a scuola, nello sport, in amore e con gli amici.Spesso l’adulto si dimentica del travaglio interiore provato in adolescenza, ma la scoperta del proprio Sé è un processo impegnativo, che porta l’adolescente a provare fatica e talvolta dolore, mentre si chiede: chi sono io? Si spaventa delle numerose domande, dei dubbi e delle incertezze che disturbano la sua mente. Cerca di dare un nome alle emozioni che prova per placare la propria angoscia, usando talvolta etichette diagnostiche, come “sono depresso”, “ho gli attacchi di panico”, per tentare di autodefinirsi, rischiando tuttavia di farle diventare parte integrante di sé.

Ma come si arriva a definire la propria identità?

In questo percorso si intrecciano due elementi: l’idea che un individuo ha di sé e ciò che l’individuo è realmente. L’idea che un individuo ha di sé racchiude aspetti che derivano dalle proprie capacità introspettive, dalla propria autostima e dai modelli (genitoriali e non) interiorizzati, mentre il secondo aspetto, ciò che l’individuo è realmente, riguarda la capacità di effettuare un buon esame di realtà: che informazioni traggo dalla realtà?, cosa mi sta dicendo la realtà su me stesso?

Nella costruzione dell’identità il rimando della realtà gioca un ruolo fondamentale: cosa pensano gli amici di me?, a loro piace la mia compagnia?, quali aspetti di me conoscono veramente?, per quali motivi il mio ragazzo/la mia ragazza vuole stare con me?

Il confronto con i pari e con gli adulti di riferimento in merito a queste domande aiuta l’adolescente a costruire tasselli della propria identità, ma nello stesso tempo può suscitare ansie, dubbi e insicurezze.

Le domande suscitate dal confronto con la realtà non sono mai semplici, ma diventano ancora più articolate e difficili per gli adolescenti di oggi, se si pensa che la realtà alla quale chiediamo un rimando per definire noi stessi è sempre meno reale. Molto spesso l’adolescente di oggi si presenta al mondo sociale attraverso un filtro: la fotografia scattata ad arte, con luce e inquadratura impeccabile, da mostrare ad amici e sconosciuti, per affascinare i follower e conquistarne di nuovi. E per un primo periodo la cosa funziona alla grande: più seguaci e like si hanno più si è popolari e più si riempie il proprio serbatoio di autostima. Poi però pian piano il ragazzo si accorge che quei follower sanno poco della sua vera personalità, non lo conoscono davvero, ed ecco che compare un senso di vuoto e di solitudine.

Il confronto con i profili social degli altri, inoltre, può avere effetti sullo stato d’animo dell’adolescente, che percepisce un divario profondo tra i suoi sentimenti e le immagini di assoluta felicità e spensieratezza che vede pubblicati online: ed ecco che appare un senso di inadeguatezza e di esclusione da un mondo esterno che appare, sottolineo appare, tanto felice.

L’adolescente di oggi, quindi, deve misurarsi non solo con la realtà “vera”, ma anche quella virtuale, fatta di like e visualizzazioni, che distorce e amplifica ogni cosa: ha tra le mani uno strumento potente, che andrebbe “maneggiato con cura”, magari con l’aiuto di un adulto, capace di ascoltare e spiegare alcune dinamiche dei social e del mondo virtuale.

IL NOSTRO PASSATO INFLUENZA LE RELAZIONI ATTUALI?

Il vostro partner vi ha comunicato all’ultimo minuto che intende passare la serata con gli amici; la vostra migliore amica si è dimenticata del vostro compleanno; vostro figlio adolescente vi rimprovera di essere insensibili nei suoi confronti.

Come reagite? Vi capita di avere reazioni incontrollate e “non desiderate”?

Può succedere che alcune situazioni di vita quotidiana scatenino in noi emozioni e reazioni forti prima ancora che possiamo rendercene conto: è come se un pilota automatico passasse al comando, e così reagiamo quasi istintivamente. Ci facciamo prendere dallo sconforto per l’appuntamento mancato col partner, siamo disorientati per la dimenticanza dall’amica o ci arrabbiamo col figlio, magari pentendocene subito dopo.

Perché succede questo?

Per trovare la risposta dobbiamo volgere lo sguardo al passato, a quando eravamo bambini. Già, perché, proprio quando siamo bambini piccolissimi, si crea in noi una mappa con cui affrontiamo il mondo nel corso della vita. In base alla relazione che instauriamo con le figure che si prendono cura di noi (in primis i genitori) e all’immagine che abbiamo di loro viene delineata una sorta di griglia di lettura degli altri, del mondo e di noi stessi. Questa mappa è stata definita dallo psicanalista Bowlby∗ “Modello Operativo Interno” ed è un insieme di regole e schemi, di cui possiamo essere più o meno consapevoli, che si attiva tutte le volte che interagiamo con altri, soprattutto in situazioni stressanti, quando siamo in pericolo e cerchiamo aiuto o quando qualcun altro chiede il nostro aiuto.

Dalla primissima infanzia si creano dentro di noi due modelli:

  • il modello operativo del mondo, nel quale si definisce chi sono le figure di attaccamento, dove le si possa trovare, e di come ci si può aspettare che reagiscano. Ad esempio, potremmo aspettarci che le persone del nostro mondo (a partire dai nostri genitori per poi includere gli insegnanti, gli amici, il partner, il collega, ecc.) siano persone affidabili e disponibili, perché abbiamo fatto esperienza di ciò nell’infanzia, oppure al contrario che siano persone delle quali non possiamo fidarci e preferiamo cavarcela da soli;
  • il modello operativo di Sé, nel quale si definisce quanto si sia accettabili o inaccettabili agli occhi delle figure di attaccamento. Allo stesso modo se nell’infanzia sentiamo accolti i nostri bisogni e i nostri desideri, ci percepiremo come persone che possono ricevere le giuste attenzioni, al contrario, il vedere i propri bisogni messi sempre in secondo piano ci porterà a credere che ciò che sentiamo e pensiamo non ha valore.

I modelli operativi interni sono determinati dal tipo di “attaccamento”, cioè di legame, che si si instaura tra madre e neonato. Esso crea occhiali del tutto personali con i quali osserviamo e interpretiamo il mondo: in base alla nostra esperienza di bambini più o meno visti, confortati e protetti, vedremo gli altri come affidabili oppure come non affidabili e percepiremo noi stessi come amabili o non amabili.

Quattro tipi di attaccamento

Le ricerche, in particolare quelle della Ainsworth, che ha osservato le reazioni dei bambini alla separazione dalla madre, hanno messo in luce la presenza di quattro diversi tipi di attaccamento.

  • Attaccamento sicuro
    Si sviluppa quando il bambino percepisce l’adulto come una “base sicura” a cui potersi rivolgere ogni qualvolta si sente in pericolo. La “base sicura” è un trampolino da cui partire per esplorare il mondo. La persona con attaccamento sicuro ha fiducia negli altri, sa di poter chiedere aiuto.
  • Attaccamento evitante
    Si sviluppa quando il bambino fa esperienza di un adulto non attento o poco affettivo. Il bambino apprende che il rischio di essere deluso è altissimo e pertanto, crescendo, rinuncia a chiedere aiuto. La persona con attaccamento evitante minimizza il suo bisogno di attaccamento, anche se nel profondo può esserci traccia di un desiderio di vicinanza e di aiuto.
  • Attaccamento ambivalente
    Il bambino è disorientato perché non sa cosa aspettarsi dall’adulto di riferimento. Non riesce a tranquillizzarsi e il genitore non costituisce una “base sicura”, ma anzi è fonte di confusione e ansia perché lo sommerge con i propri vissuti emotivi. Da adulto sente un forte bisogno di attaccamento che, se non soddisfatto, fa riemergere la tipologia ambivalente che non gli permette di tranquillizzarsi e di essere sicuro del legame con l’altra persona. In genere vive i rapporti come se fosse questione di vita o di morte.
  • Attaccamento disorganizzato
    Si sviluppa quando la figura di riferimento è fonte di terrore e angoscia. Le persone con attaccamento disorganizzato da piccole hanno subito maltrattamenti, abusi o gravi trascuratezze.In queste circostanze il bambino sperimenta una forte confusione proprio perché la figura di riferimento, che dovrebbe rassicurare, è essa stessa fonte di paura. È un tipo di attaccamento molto insicuro e problematico.

Ormai le neuroscienze hanno ampiamente dimostrato che le esperienze che viviamo nel presente si ricollegano e attivano episodi che abbiamo vissuto nel passato.

Spesso non ne siamo consapevoli e in particolare non siamo consapevoli di quei piccoli o grandi episodi traumatici e stressanti che hanno plasmato la nostra mappa: tendiamo a dimenticare episodi spiacevoli, in cui, per esempio, da bambini siamo stati rimproverati quando ci aspettavamo conforto, ci hanno fatto sentire in imbarazzo, non ci siamo sentiti considerati e accolti…. Già, proprio perché questi momenti hanno generato in noi ansia, gli ormoni dello stress hanno bloccato l’elaborazione delle emozioni legate all’episodio e hanno impedito al ricordo di archiviarsi nella nostra memoria autobiografica.

E quindi dobbiamo chiederci: il senso di abbandono derivato dalla decisione del partner di trascorrere la serata con gli amici o la cocente delusione per la dimenticanza dell’amica o ancora la rabbia provata per le accuse del figlio, riguarda il qui e ora o ha toccato un nervo scoperto che ha a che fare con il passato?

Più si è consapevoli del proprio stile di attaccamento e più si riconoscono i collegamenti tra il presente e il passato e più si evita di dare in mano il controllo della propria vita ad un pilota automatico, che segue una mappa antica e non più funzionale, una mappa che non contempla eventuali nuovi percorsi del presente.

Lo stile di attaccamento non deve rimanere per forza immutato: può cambiare, soprattutto grazie alle relazioni emotivamente significative che stringiamo nel corso della vita: le relazioni di coppia o le relazioni terapeutiche possono infatti contribuire a modellare e modificare il nostro stile di attaccamento.

∗Bowlby, J. (1973), Attaccamento e perdita.