Silvia Arzuffi

IL NOSTRO PASSATO INFLUENZA LE RELAZIONI ATTUALI?

Il vostro partner vi ha comunicato all’ultimo minuto che intende passare la serata con gli amici; la vostra migliore amica si è dimenticata del vostro compleanno; vostro figlio adolescente vi rimprovera di essere insensibili nei suoi confronti.

Come reagite? Vi capita di avere reazioni incontrollate e “non desiderate”?

Può succedere che alcune situazioni di vita quotidiana scatenino in noi emozioni e reazioni forti prima ancora che possiamo rendercene conto: è come se un pilota automatico passasse al comando, e così reagiamo quasi istintivamente. Ci facciamo prendere dallo sconforto per l’appuntamento mancato col partner, siamo disorientati per la dimenticanza dall’amica o ci arrabbiamo col figlio, magari pentendocene subito dopo.

Perché succede questo?

Per trovare la risposta dobbiamo volgere lo sguardo al passato, a quando eravamo bambini. Già, perché, proprio quando siamo bambini piccolissimi, si crea in noi una mappa con cui affrontiamo il mondo nel corso della vita. In base alla relazione che instauriamo con le figure che si prendono cura di noi (in primis i genitori) e all’immagine che abbiamo di loro viene delineata una sorta di griglia di lettura degli altri, del mondo e di noi stessi. Questa mappa è stata definita dallo psicanalista Bowlby∗ “Modello Operativo Interno” ed è un insieme di regole e schemi, di cui possiamo essere più o meno consapevoli, che si attiva tutte le volte che interagiamo con altri, soprattutto in situazioni stressanti, quando siamo in pericolo e cerchiamo aiuto o quando qualcun altro chiede il nostro aiuto.

Dalla primissima infanzia si creano dentro di noi due modelli:

  • il modello operativo del mondo, nel quale si definisce chi sono le figure di attaccamento, dove le si possa trovare, e di come ci si può aspettare che reagiscano. Ad esempio, potremmo aspettarci che le persone del nostro mondo (a partire dai nostri genitori per poi includere gli insegnanti, gli amici, il partner, il collega, ecc.) siano persone affidabili e disponibili, perché abbiamo fatto esperienza di ciò nell’infanzia, oppure al contrario che siano persone delle quali non possiamo fidarci e preferiamo cavarcela da soli;
  • il modello operativo di Sé, nel quale si definisce quanto si sia accettabili o inaccettabili agli occhi delle figure di attaccamento. Allo stesso modo se nell’infanzia sentiamo accolti i nostri bisogni e i nostri desideri, ci percepiremo come persone che possono ricevere le giuste attenzioni, al contrario, il vedere i propri bisogni messi sempre in secondo piano ci porterà a credere che ciò che sentiamo e pensiamo non ha valore.

I modelli operativi interni sono determinati dal tipo di “attaccamento”, cioè di legame, che si si instaura tra madre e neonato. Esso crea occhiali del tutto personali con i quali osserviamo e interpretiamo il mondo: in base alla nostra esperienza di bambini più o meno visti, confortati e protetti, vedremo gli altri come affidabili oppure come non affidabili e percepiremo noi stessi come amabili o non amabili.

Quattro tipi di attaccamento

Le ricerche, in particolare quelle della Ainsworth, che ha osservato le reazioni dei bambini alla separazione dalla madre, hanno messo in luce la presenza di quattro diversi tipi di attaccamento.

  • Attaccamento sicuro
    Si sviluppa quando il bambino percepisce l’adulto come una “base sicura” a cui potersi rivolgere ogni qualvolta si sente in pericolo. La “base sicura” è un trampolino da cui partire per esplorare il mondo. La persona con attaccamento sicuro ha fiducia negli altri, sa di poter chiedere aiuto.
  • Attaccamento evitante
    Si sviluppa quando il bambino fa esperienza di un adulto non attento o poco affettivo. Il bambino apprende che il rischio di essere deluso è altissimo e pertanto, crescendo, rinuncia a chiedere aiuto. La persona con attaccamento evitante minimizza il suo bisogno di attaccamento, anche se nel profondo può esserci traccia di un desiderio di vicinanza e di aiuto.
  • Attaccamento ambivalente
    Il bambino è disorientato perché non sa cosa aspettarsi dall’adulto di riferimento. Non riesce a tranquillizzarsi e il genitore non costituisce una “base sicura”, ma anzi è fonte di confusione e ansia perché lo sommerge con i propri vissuti emotivi. Da adulto sente un forte bisogno di attaccamento che, se non soddisfatto, fa riemergere la tipologia ambivalente che non gli permette di tranquillizzarsi e di essere sicuro del legame con l’altra persona. In genere vive i rapporti come se fosse questione di vita o di morte.
  • Attaccamento disorganizzato
    Si sviluppa quando la figura di riferimento è fonte di terrore e angoscia. Le persone con attaccamento disorganizzato da piccole hanno subito maltrattamenti, abusi o gravi trascuratezze.In queste circostanze il bambino sperimenta una forte confusione proprio perché la figura di riferimento, che dovrebbe rassicurare, è essa stessa fonte di paura. È un tipo di attaccamento molto insicuro e problematico.

Ormai le neuroscienze hanno ampiamente dimostrato che le esperienze che viviamo nel presente si ricollegano e attivano episodi che abbiamo vissuto nel passato.

Spesso non ne siamo consapevoli e in particolare non siamo consapevoli di quei piccoli o grandi episodi traumatici e stressanti che hanno plasmato la nostra mappa: tendiamo a dimenticare episodi spiacevoli, in cui, per esempio, da bambini siamo stati rimproverati quando ci aspettavamo conforto, ci hanno fatto sentire in imbarazzo, non ci siamo sentiti considerati e accolti…. Già, proprio perché questi momenti hanno generato in noi ansia, gli ormoni dello stress hanno bloccato l’elaborazione delle emozioni legate all’episodio e hanno impedito al ricordo di archiviarsi nella nostra memoria autobiografica.

E quindi dobbiamo chiederci: il senso di abbandono derivato dalla decisione del partner di trascorrere la serata con gli amici o la cocente delusione per la dimenticanza dell’amica o ancora la rabbia provata per le accuse del figlio, riguarda il qui e ora o ha toccato un nervo scoperto che ha a che fare con il passato?

Più si è consapevoli del proprio stile di attaccamento e più si riconoscono i collegamenti tra il presente e il passato e più si evita di dare in mano il controllo della propria vita ad un pilota automatico, che segue una mappa antica e non più funzionale, una mappa che non contempla eventuali nuovi percorsi del presente.

Lo stile di attaccamento non deve rimanere per forza immutato: può cambiare, soprattutto grazie alle relazioni emotivamente significative che stringiamo nel corso della vita: le relazioni di coppia o le relazioni terapeutiche possono infatti contribuire a modellare e modificare il nostro stile di attaccamento.

∗Bowlby, J. (1973), Attaccamento e perdita.

LO SVILUPPO EMOTIVO DEL NEONATO: PERCHÉ RIVOLGERSI AD UNO PSICOLOGO?

Non è necessario, anzi è controproducente, aspettare che insorgano problemi nel bambino prima di chiedere un parere professionale. È sempre possibile e utile intervenire sui bambini, anche neonati, per accorgersi in tempo di quelle distorsioni relazionali che possono compromettere uno sviluppo armonico.

Il genitore deve tenere a mente che i primi anni di vita, e già i primissimi mesi, possono essere determinanti per lo sviluppo emotivo e sociale del proprio figlio.

Il neonato viene al mondo in modo traumatico, attraverso un cambiamento drastico di ambiente e di sensazioni.

Per i primi giorni il suo “nuovo mondo” è costituito da sensazioni forti come fame, sazietà, calore, braccia che lo sorreggono e lo cullano: è un mondo confortevole e sicuro o freddo e poco adattabile alle sue esigenze?

Contrariamente a quanto si creda, il neonato registra nella sua memoria corporea queste sensazioni ed è proprio a partire da lì che inizia a formare la sua primissima immagine sensoriale del mondo che lo circonda.

Il “nuovo mondo” è un mondo che dà cibo: il neonato sente qualcosa di buono e caldo che entra nel suo corpo: è una sensazione molto piacevole e desiderata. Ma cosa succede quando il latte manca o non è sufficiente? La sensazione di vuoto non viene colmata…

Lui non lo sa che la mamma è un po’ preoccupata: le amiche del corso pre parto le hanno detto che i loro figli mangiano per più tempo rispetto al suo, la suocera ritiene che dovrebbe dargli da mangiare più spesso ed infine sua madre ha insinuato che la colpa è sua, perché è troppo ansiosa. Non sa a chi dare ascolto, è stanca, confusa e pensierosa.

Ed ecco che le prime sensazioni del bambino rispetto al mondo si fanno più articolate: quella piacevole sensazione di riempimento della pancia è accompagnata dal fastidio di un abbraccio preoccupato.

Se le esperienze negative di contatto corporeo sono forti e prolungate nel tempo possono generare e lasciare traccia nella memoria corporea di vissuti traumatici e dolorosi.

Il bambino sa anche che il suo pianto provoca un effetto nel mondo che lo circonda. Quando si sente angosciato da una sensazione spiacevole di stanchezza o di fame, ricerca nel corpo e nella mente della madre un po’ di pace, di sicurezza e di serenità. Non sempre però il volto della madre, il suo tono e il suo modo di parlargli hanno il potere di consolarlo. Lui non sa che il suo pianto scatena nella mamma sensazioni forti e arcaiche, talvolta anche di rabbia e fastidio per il solo fatto di essere di fronte ad una richiesta impellente di soddisfazione di bisogni vitali, profondamente legati anche ai suoi vissuti di neonata e bambina.

Crescendo, il bambino scopre che il mondo è fatto anche di sguardi e di voci.

A lui piace comunicare, è nato con la predisposizione ad entrare in relazione e infatti inizia a cercare lo sguardo della mamma. Quanto è importante riconoscere i primissimi segnali comunicativi del neonato! Una mamma sensibile e disposta ad entrare in una relazione che le impone di regredire, di mettersi ad un livello infantile, e quindi di sentire anche riemergere i propri vissuti di bambina, più o meno piacevoli, è una mamma capace di rispondere con lo sguardo.

Ma cosa c’è davvero nello sguardo della mamma? Cosa rimanda al bambino?

Gli rimanda la sua stessa immagine, come lo vede, cosa pensa di lui, come lo vive e quali fantasie, conscie e inconsce, ha su di lui. Se lo sguardo materno è costantemente preoccupato, arrabbiato o distratto, il bambino non lo ricercherà più e si sottrarrà alla prima e più importante relazione sociale, quella con sua madre, che è la matrice di tutte le altre relazioni sociali.

Non sempre il bambino cerca la relazione con entusiasmo e con segnali comunicativi chiari, rendendo difficile la risposta da parte della mamma.

Infatti ogni bambino nasce con il proprio carattere e con una certa dose di energia vitale: l’incontro con la personalità e i vissuti dei genitori determinerà la crescita psicologica e relazionale del bambino.

In modo automatico avvengono quindi moltissimi scambi inconsci tra un neonato e la sua mamma. Le esperienze passate, le fantasie inconsce, il proprio vissuto di bambini e la relazione di coppia creano un lente che si frappone tra lo sguardo della mamma e quello del neonato. Se quella lente ha il potere di distorcere la realtà, si rischia di compromettere lo sviluppo del bambino che si vede costretto ad adeguarsi ad un’immagine di sé imposta dall’inconscio dell’altro piuttosto che scoprire il vero Sé attraverso gli occhi della madre.

Per questi motivi un intervento precoce può rendere più consapevoli i genitori riguardo alle dinamiche relazionali nascenti nella nuova famiglia e alle loro fantasie legate al nuovo nato, permettendo di prevenire distorsioni relazionali che possono compromettere la crescita sana del bambino.

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ANSIA: UN NEMICO DA COMBATTERE O UN SINTOMO DA INDAGARE?

Sentiamo parlare molto spesso di ansia, e probabilmente l’abbiamo sperimentata in qualche occasione. Ma esattamente cosa è? E perché la proviamo?

Ormai è dimostrato ampiamente che un livello moderato di ansia è adattivo per l’individuo che si appresta ad affrontare un compito di una certa difficoltà. L’ansia quindi ci può aiutare durante l’apprendimento, la produttività o la risoluzione di problemi complessi. Oppure fa in modo di attivare l’organismo per fronteggiare un potenziale pericolo, per esempio per essere pronti a difenderci di fronte ad un’aggressione.

Uno stato ansioso, quindi, ci avverte che la situazione che stiamo per affrontare merita tutte le nostre energie e abilità.

Tuttavia a volte l’ansia sembra remare contro di noi: diventa la protagonista della nostra giornata o si impone nei momenti meno opportuni. Ecco allora che il pensiero si offusca e davanti a noi vediamo solo tre alternative: lottare, fuggire o rimanere bloccati. Quando i livelli di ansia sono molto elevati può capitare di spaventarsi o di provare vergogna a causa delle proprie reazioni. Può quindi innescarsi un circolo vizioso per il quale si fa di tutto per evitare di ritrovarsi nella stessa situazione penosa, arrivando anche a limitare la propria vita sociale per timore di rivivere, magari di fronte ad altri, quelle situazioni di panico.

Le manifestazioni dell’ansia possono essere molto diverse tra di loro: la più evidente e al tempo stesso più violenta è sicuramente l’attacco di panico, durante il quale il corpo reagisce come se fosse in pericolo di morte: tachicardia, fatica a respirare, paralisi, pensieri rapidi, vertigini, svenimento, senso improvviso di terrore e morte imminente fino ad arrivare a sentimenti di depersonalizzazione.

L’attacco di panico può essere scatenato da qualsiasi stimolo: una zona affollata, un concerto, un temporale, stare in coda in macchina, la vista di un vecchio conoscente, una promozione lavorativa, ecc.

Talvolta l’angoscia può prendere la forma di fobie specifiche: si ha paura di determinati animali, di stare in spazi chiusi, degli aghi o di contrarre infezioni.

L’ansia può manifestarsi anche in modo meno violento, rimanendo però presente nel corso di tutta la giornata: si fa fatica a concentrarsi, a portare a termine un’attività sul lavoro, cala la motivazione e la capacità di organizzarsi, prendere sonno diventa difficoltoso, o si prova un sottile senso di angoscia.

Infine, può scaricarsi nel corpo ed ecco che insorgono sintomi somatici come disturbi gastrointestinali, mal di testa, contratture cervicali, stanchezza, ecc.

Come fronteggiare l’ansia?

La prima cosa che viene spontaneo fare per contrastare le spiacevoli sensazioni date dall’ansia è trovare accorgimenti pratici: si evitano luoghi affollati, si controllano le vie di fuga in un ambiente chiuso, si controllano continuamente le previsioni del tempo, e così via. Magari si riesce a scampare a qualche situazione faticosa, ma si sa bene che l’ansia non se ne va del tutto, si è sempre all’erta e si ha sempre il timore di ricadere nell’angoscia profonda. Ma allora perché non fermarsi e ammettere che forse la nostra mente, e il nostro corpo, ci stanno comunicando qualcosa?

L’ansia è un segnale, è un campanello di allarme che ci avvisa di un pericolo.

Ma dove si trova questo pericolo? Non certo nel luogo affollato, nella coda in autostrada, o nel temporale, e razionalmente se ne rende conto anche chi prova forti sensazioni di panico in situazioni simili. Forse allora dobbiamo spostare l’attenzione dall’esterno e rivolgere lo sguardo verso il nostro mondo interno e provare ad indagare questi segnali di angoscia. Cosa ci stanno comunicando? Cosa è davvero che genera questa sensazione di ansia?

All’interno di un percorso di psicoterapia si cerca di rispondere a queste domande, dando voce ai sintomi e partendo dalla consapevolezza che l’ansia ha un significato inconscio specifico e unico per ogni individuo.

Infatti sotto alle paure specifiche o ad un attacco di panico può nascondersi un desiderio represso o un impulso non accettabile per la coscienza, che crea un conflitto interiore.  L’origine di tale conflitto può risalire alla propria infanzia e non essere immediatamente accessibile alla memoria, ma è possibile recuperarlo e esplorarne la dinamica all’interno di una relazione psicoterapeutica.

Partendo da una paura specifica, o da un’angoscia che appare immotivata, si può analizzare la modalità in cui si manifesta, le fantasie sottostanti, i ricordi legati ai primi episodi d’ansia e le modalità difensive usate dalla persona, per arrivare a comprendere il conflitto inconscio che genera la sensazione d’angoscia. Una volta riconosciuto e affrontato nella relazione con il terapeuta, il conflitto non sarà più ritenuto una minaccia: il segnale d’allarme non sarà più inviato, non si attiveranno più gli stessi meccanismi di difesa che ormai erano divenuti poco efficaci e quindi l’angoscia non avrà più la sua ragione di esistere.